| Lunedì ho partecipato ad un corso di formazione sulla poesia della durata di 4 ore. Il corso era incentrato sull'insegnamento della poesia a scuola, ma l'host, nonché poetessa (Franca Mancinelli), ci ha tenuto a spiegare quali fossero le sue basi di partenza e che cosa intendesse per poesia, non in modo diretto, ma abbastanza comprensibile. Per lei fare poesia significa sacrificare, potare il superfluo. In poche parole, si deve sacrificare per fare poesia:
- ciò che non entra nel ritmo - ciò che non permette di vedere (tutto quello che nasce da un'esperienza indiretta) - ciò che non va oltre all'io (una poesia fine a se stessa) - ciò che non nasce dalla lingua viva, di ogni giorno - ciò che può essere detto con meno parole (ridurre all'essenziale) - ciò che mostra il segno delle letture e gli insegnamenti dei maestri (scrollarsi di dosso pensieri altrui che hanno effetto, sì, ma non ci appartengono, non sono stati interiorizzati) - ciò che è già stato usato in poesia così tante volte da non avere più potere creativo.
A detta sua, inoltre, la poesia contemporanea ha un grosso difetto (che condivido): poche poesie e troppi poeti, poca poesia e troppe espressioni poetiche.
E sono rimasto spiazzato quando, pensando di essere entrato in sintonia con la sua visione, ha tirato fuori un poeta marchigiano, Ferretti, morto giovanissimo, ma che aveva rapito Pasolini (solo un prosatore/poeta può apprezzare Ferretti, io dico). E tal Ferretti ha scritto cose bellissime, inutile girarci intorno, ma questa è poesia? E dunque, cosa è per voi poesia?
Polemica per un’epopea tascabile
Sono un animale ferito.
Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda. Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato. Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati. Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato. Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi organizzati nelle palestre, educati nelle caserme, ammaestrati nelle scuole: per la morte veloce delle bombe, per la morte lenta degli orologi delle seggiole dei telefoni. Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare.
Per la poetessa questa è poesia, per me sono espressioni poetiche, sono pensieri in versi, prosa poetica. Sì, c'è il ritmo, abbiamo figure retoriche, abbiamo la creazione, il poiein, ma dov'è la struttura? Dov'è il verso? Dove è l'andirivieni melodico, dove sono le anastrofi e gli iperbati, dove sono i versi spezzati?
Anch’io sono il mare
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo ruberanno la fiamma al fuoco e violeranno l’aria fin dove sospira, ma il mare resterà il mare: l’eterna emozione l’elemento senza futuro.
Si sanno le piaghe aperte dalle navi i delitti delle reti e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle, ma il mare non cambia colore.
Non dico questo perché ho segreti di conchiglie ribelli, e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte ma la mia stella incrociava altre acque e nel libro del buio stava scritto che il volto delle meduse lo avrei trovato nella gente di terra: e gli sono cresciuto lontano con la misera invidia per i suoi sereni peccati fatti di sole e di carne spogliata, e ho accettato la sua potenza, i lividi muri alzati tra nuvola e abisso, e l’onda del nord senza sogni. Ma non ho avuto pazienza: e l’acqua è rimasta col sale; non ho avuto pazienza perché anch’io sono il mare.
Esiste una definizione di poesia o i gusti personali incidono? Siamo nella postmodernità e tutto sembra ammissibile, oramai anche la Crusca si piega a neologismi senza criterio. Allora il mio è un atteggiamento da conservatore, incapace di accettare il divenire? Siamo in troppi a scribacchiare e, come in grammatica, è l'uso che fa la regola, non viceversa (dunque, più siamo e meglio è). Possibile, dunque, che la massa abbia la tendenza a cimentarsi nel difficile e controverso verso libero senza un minimo di criterio, di studio matto e disperatissimo, solo perché oramai la maggior parte scrive così? Scrivere così, significa annacquare, secondo me, lo spirito della poesia. Attenzione, non dico che la poesia debba essere per pochi, ma distinguere poesia da espressioni poetiche in "versi" credo sia un traguardo da raggiungere nel XXI secolo. Ritengo dunque necessario che si debba definire cosa sia poesia e cosa non lo sia, perché mentre un secolo fa era abbastanza semplice individuare un poeta, oggi spesso questo si confonde fra i numerosi poetastri, che altro non sono che grandi pensatori senza calamo.
Aggiungo anche questo che ho trovato in rete per rendere l'idea più vivida:
www.silviasegnan.it/le-mie-poesie/
N.B: non mi reputo un poeta, ma facendo questo discorso sarà apparso così. Vorrei solamente che si tornasse a valorizzare anche l'impegno tecnico che c'è dietro ad una composizione e non solo l'istinto emotivo.
Edited by DruVir - 22/11/2023, 17:30 |
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