Athene noctua

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    Cavaliere di Corte

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    Fonti d'ispirazione: simbolismo di Atena con la civetta; la mia percezione di Glesion.
    Disclaimer: se l'immagine è più simile a un gufo che a una civetta, prendetevela con l'I.A. :D
    Per Glesion: tanto so già che mi romperai le palle su cesure, punteggiatura e forse su altro, perciò... bring it birdie, my body is ready! :laugh:


    Athene noctua

    20.%20Strige



    Totem e simbolo della Pallàde,
    sguardi glaucòpidi sferzano il nero:
    ché di beltade non v'è, in contrade
    scialbe e neglette d'un orbe insincero.


    Gelido canto rapace riecheggia
    nella ricerca del Vero e del Bello,
    ali che fremono là, ove albeggia
    cupo il mistero, e aggrava il fardello.


    Animo impavido, giace sospeso
    tra pessimismo ed ebbrezza di note
    tristi, che rigano il foglio e le gote
    mentre quel volto rimane disteso.


    Bieca foresta che intrappola il cuore:
    versi che come lamenti stridenti
    cercano invano l'amore e il colore,
    dell'eufonia rigogliosi gli stenti.


    Cieco rimane lo sguardo al segreto,
    giovane strige che tutto tu vedi,
    ma non t'avvedi del quadro completo:
    priva di forza sovente ti credi,
    ma la fortezza interiore che celi
    può elevarti nell'alto dei cieli.

    Edited by Askar - 1/4/2024, 19:18
     
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    Bisogna operare una diastole su "Pàllade" e farla diventare "Pallàde" che poi sarebbe anche la pronuncia originale -> Παλλάς/Παλλάδος; Pallàs/Pallàdos).

    Detto questo, io adoro il ritmo modulare dattilico, Glesion vedrai che ti dirà che l'endecasillabo è un verso così versatile che è un peccato non fare variazioni :laugh:

    Scherzi a parte, come detto mi piace molto sul lato ritmico e anche su quello musicale: diversi schemi rimici, molte allitterazioni e richiami che ricordano un po' gli asticci barocchi, vivacità e ingegno; a me personalmente mi è molto piaciuta, così come l'uso di alcune cesure che introducono strategiche "spezzate".


    Espressivamente il tono si mantiene aulico e ho trovato ficcanti e precisi i riferimenti al dedicatario, gufo e note musicali in primis.
    Unico appunto: "occhi glaucopidi" è come dire "occhi dagli occhi azzurri": potrebbe essere anche un gongorismo fatto apposta, ma su questo la parola sta a te.
    CITAZIONE
    priva di forza sovente ti credi,
    ma la fortezza interiore che celi
    può elevarti nell'alto dei cieli.

    E qui a mio parere sta il cuore del contenuto, una poesia che non è solamente descrittiva, ma anche didascalica nel senso greco del termine, foriera cioè di un consiglio e di un insegnamento, che trovo anche lusinghiero (in senso positivo) verso Damiano.

    Bravo bravo.
     
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    CITAZIONE (Tulit-Fert-Feret @ 14/3/2024, 17:23) 
    Bisogna operare una diastole su "Pàllade" e farla diventare "Pallàde" che poi sarebbe anche la pronuncia originale -> Παλλάς/Παλλάδος; Pallàs/Pallàdos).

    Nella mia ignoranza, mi è stata insegnata la pronuncia originale e non sapevo ce ne fossero altre, quindi l'ho concepita come Pallàde e non ho usato per quello l'accento diacritico. L'aggiungerò in seguito. :D

    CITAZIONE (Tulit-Fert-Feret @ 14/3/2024, 17:23) 
    Detto questo, io adoro il ritmo modulare dattilico, Glesion vedrai che ti dirà che l'endecasillabo è un verso così versatile che è un peccato non fare variazioni :laugh:

    Mi dirà solo quello, se sono fortunato. :laugh:

    CITAZIONE (Tulit-Fert-Feret @ 14/3/2024, 17:23) 
    Scherzi a parte, come detto mi piace molto sul lato ritmico e anche su quello musicale: diversi schemi rimici, molte allitterazioni e richiami che ricordano un po' gli asticci barocchi, vivacità e ingegno; a me personalmente mi è molto piaciuta, così come l'uso di alcune cesure che introducono strategiche "spezzate".

    Meno male, nella testa quelle virgole mi suonavano strategicamente ben piazzate, ma non ero sicuro.

    CITAZIONE (Tulit-Fert-Feret @ 14/3/2024, 17:23) 
    Espressivamente il tono si mantiene aulico e ho trovato ficcanti e precisi i riferimenti al dedicatario, gufo e note musicali in primis.
    Unico appunto: "occhi glaucopidi" è come dire "occhi dagli occhi azzurri": potrebbe essere anche un gongorismo fatto apposta, ma su questo la parola sta a te.

    Errore marchiano, lo confesso. Di solito non modifico le poesie, ma questa dopo il contest la cambio. :laugh:

    CITAZIONE (Tulit-Fert-Feret @ 14/3/2024, 17:23) 
    CITAZIONE
    priva di forza sovente ti credi,
    ma la fortezza interiore che celi
    può elevarti nell'alto dei cieli.

    E qui a mio parere sta il cuore del contenuto, una poesia che non è solamente descrittiva, ma anche didascalica nel senso greco del termine, foriera cioè di un consiglio e di un insegnamento, che trovo anche lusinghiero (in senso positivo) verso Damiano.

    Bravo bravo.

    :cappello:

    Dato che sto leggendo Il Conte di Montecristo, mi vien da dire che, seppur siamo coetanei, in poesia tu stai a Faria come io a Edmond Dantès. La tua scienza è passata in me... per fortuna senza dover passare da una prigione. :laugh:
     
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    Volendo fare una battuta credo che Glesion ti passerà il ricorso alla civetta, anche in quanto animale importante nel mondo classico, come da te rimarcato; avrebbe forse apprezzato meno se in lui avessi visto un altro rapace notturno, l'allocco, per motivi facilmente intuibili.
    La poesia è molto forbita, curata sia nella forma che nella metrica e scritta in un linguaggio aulico (con termini sovente desueti o ricercati: solo nella prima strofa troviamo subito "totem", più da trattato scientifico che da poesia, poi ovviamente "glaucopidi", lo stesso "sferzano", che oggi è quasi scomparso nel lessico comune, "beltade" col suo fascino arcaico, "neglette" di cui in genere si usa un sinonimo, "insincero" che è un particolare tipo di litote), ma al tempo stesso comprensibile, come esplicitamente richiesto da Glesion stesso, che credo non ami un ermetismo troppo spinto.
    Ogni strofa inizia con un nome (in due casi) o un aggettivo (in tre) che indirizza la strofa stessa.
    Nella prima si spiega cosa vede in Glesion l'autore, attraverso la metafora della civetta: un censore della bruttezza, non tanto o non solo esteriore, quanto soprattutto interiore (emblematici i tre aggettivi qualificativi negativi del quarto verso).
    Nella seconda un altro aggettivo (a inizio verso) è stavolta riferito a Glesion stesso, visto come rapace alla ricerca del Vero e del Bello, che ricorda molto quella leopardiana: una aspirazione filosofica e assieme un bisogno umano ("umano, troppo umano", per dirla con Nietzsche). Essendo questa ricerca difficoltosa e contraddittoria (difficilmente vero e bello coincidono perché la verità è spesso amara) troviamo un ossimoro molto riuscito che simboleggia il tutto: "albeggia cupo il mistero". Mistero che, intangibile per definizione, è come personificato: oltre ad albeggiare, aggrava il fardello e causa il fremito delle ali del rapace.
    Nella terza strofa è rimarcato l'animo di Glesion, assieme impavido e sospeso tra pessimismo ed ebbrezza (altra immagine nietzschiana, quasi dionisiaca, con quel bell'enjambement che fa sperare che le noti possano davvero ubriacare per poi sottolineare che esse sono però tristi, tanto da rigare il foglio come lacrime, ed ecco che infatti rigano anche le gote, sicché la metafora trapassa in pura realtà, mentre il volto rimane disteso, quasi in modo innaturale, per un autocontrollo che è molto glesioniano).
    Nella quarta foresta si chiarisce quale sia il nemico, sempre con una metafora molto forte: è la bieca foresta che intrappola il cuore, alla quale i versi cercano di contrapporre gli stenti rigogliosi (aggettivo molto applicabile al mondo vegetale e dunque contraltare alla finestra di cui sopra) dell'euforia, assieme ad amore e colore, ma c'è un problema: i versi sono come lamenti stridenti e la ricerca è vana, come se la soluzione per i mali del cuore non fosse quella.
    E la quinta strofa chiarisce quale è o potrebbe essere la vera soluzione: il giovane rapace (strige) sembra vedere tutto, ma è al tempo stesso cieco non vedendo il segreto e quindi il quadro completo: il suo pessimismo cosmico, soprattutto nei confronti di sé stesso, gli impedisce di cogliere la sua forza, non sapendo che la fortezza inferiore che cela può elevarlo nel regno dei cieli. Il "priva" credo sia femminile perché riferito alla civetta, anche se in tutta la poesia è l'unico aggettivo femminile riferito a Glesion. Gli ultimi due versi travalicano il discorso contingente fino ad assumere quasi una componente spirituale o addirittura religiosa, anche se l'alto dei cieli qui credo sia riferibile al volo in alto di un uccello che siamo abituati a considerare più stanziale e il valore sia quindi metaforico: a fare oltre i propri limiti autoimposti. La bellezza della morale finale è, a mio parere, nel fatto che l'autore in un certo senso si immedesima con Glesion, invitandolo a fare uso del titanismo e dell'orgoglio come valori positivi e propositivi.
     
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    CITAZIONE (Pecco73 @ 15/3/2024, 15:22) 
    Volendo fare una battuta credo che Glesion ti passerà il ricorso alla civetta, anche in quanto animale importante nel mondo classico, come da te rimarcato; avrebbe forse apprezzato meno se in lui avessi visto un altro rapace notturno, l'allocco, per motivi facilmente intuibili.
    La poesia è molto forbita, curata sia nella forma che nella metrica e scritta in un linguaggio aulico (con termini sovente desueti o ricercati: solo nella prima strofa troviamo subito "totem", più da trattato scientifico che da poesia, poi ovviamente "glaucopidi", lo stesso "sferzano", che oggi è quasi scomparso nel lessico comune, "beltade" col suo fascino arcaico, "neglette" di cui in genere si usa un sinonimo, "insincero" che è un particolare tipo di litote), ma al tempo stesso comprensibile, come esplicitamente richiesto da Glesion stesso, che credo non ami un ermetismo troppo spinto.
    Ogni strofa inizia con un nome (in due casi) o un aggettivo (in tre) che indirizza la strofa stessa.
    Nella prima si spiega cosa vede in Glesion l'autore, attraverso la metafora della civetta: un censore della bruttezza, non tanto o non solo esteriore, quanto soprattutto interiore (emblematici i tre aggettivi qualificativi negativi del quarto verso).
    Nella seconda un altro aggettivo (a inizio verso) è stavolta riferito a Glesion stesso, visto come rapace alla ricerca del Vero e del Bello, che ricorda molto quella leopardiana: una aspirazione filosofica e assieme un bisogno umano ("umano, troppo umano", per dirla con Nietzsche). Essendo questa ricerca difficoltosa e contraddittoria (difficilmente vero e bello coincidono perché la verità è spesso amara) troviamo un ossimoro molto riuscito che simboleggia il tutto: "albeggia cupo il mistero". Mistero che, intangibile per definizione, è come personificato: oltre ad albeggiare, aggrava il fardello e causa il fremito delle ali del rapace.
    Nella terza strofa è rimarcato l'animo di Glesion, assieme impavido e sospeso tra pessimismo ed ebbrezza (altra immagine nietzschiana, quasi dionisiaca, con quel bell'enjambement che fa sperare che le noti possano davvero ubriacare per poi sottolineare che esse sono però tristi, tanto da rigare il foglio come lacrime, ed ecco che infatti rigano anche le gote, sicché la metafora trapassa in pura realtà, mentre il volto rimane disteso, quasi in modo innaturale, per un autocontrollo che è molto glesioniano).
    Nella quarta foresta si chiarisce quale sia il nemico, sempre con una metafora molto forte: è la bieca foresta che intrappola il cuore, alla quale i versi cercano di contrapporre gli stenti rigogliosi (aggettivo molto applicabile al mondo vegetale e dunque contraltare alla finestra di cui sopra) dell'euforia, assieme ad amore e colore, ma c'è un problema: i versi sono come lamenti stridenti e la ricerca è vana, come se la soluzione per i mali del cuore non fosse quella.
    E la quinta strofa chiarisce quale è o potrebbe essere la vera soluzione: il giovane rapace (strige) sembra vedere tutto, ma è al tempo stesso cieco non vedendo il segreto e quindi il quadro completo: il suo pessimismo cosmico, soprattutto nei confronti di sé stesso, gli impedisce di cogliere la sua forza, non sapendo che la fortezza inferiore che cela può elevarlo nel regno dei cieli. Il "priva" credo sia femminile perché riferito alla civetta, anche se in tutta la poesia è l'unico aggettivo femminile riferito a Glesion. Gli ultimi due versi travalicano il discorso contingente fino ad assumere quasi una componente spirituale o addirittura religiosa, anche se l'alto dei cieli qui credo sia riferibile al volo in alto di un uccello che siamo abituati a considerare più stanziale e il valore sia quindi metaforico: a fare oltre i propri limiti autoimposti. La bellezza della morale finale è, a mio parere, nel fatto che l'autore in un certo senso si immedesima con Glesion, invitandolo a fare uso del titanismo e dell'orgoglio come valori positivi e propositivi.

    Corro un attimo a indossare i panni di Jeremiah Johnson e torno... :laugh:



    Nulla da aggiungere se non che l'immedesimazione mi è molto facile, essendo passato per le stesse cose quand'ero più giovane. Da lì il suggerimento contenuto nella chiusa, che viene da chi quella strada l'ha già percorsa. :pipa:
     
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    Il linguaggio aulico, unito all'ampio respiro permesso dagli endecasillabi, regala al ritratto del "nostro gufo" un aurea elegante; e soprattutto originale grazie alle tante immagini, non scontate, che si susseguono. La scelta del lessico ricercato (e a tratti arcaico) ritengo che sia quanto mai appropriata considerando quanto Glesion sia amante del registro alto.

    "Animo impavido, giace sospeso
    tra pessimismo ed ebbrezza di note
    tristi, che rigano il foglio e le gote
    mentre quel volto rimane disteso."


    Questa strofa è la mia strofa preferita. Credo che colga bene la dualità del poeta fra abbattimento ed euforia - benché un'euforia triste - mentre scrive.

     
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    CITAZIONE (j.darkblue @ 15/3/2024, 22:53) 
    Il linguaggio aulico, unito all'ampio respiro permesso dagli endecasillabi, regala al ritratto del "nostro gufo" un aurea elegante; e soprattutto originale grazie alle tante immagini, non scontate, che si susseguono. La scelta del lessico ricercato (e a tratti arcaico) ritengo che sia quanto mai appropriata considerando quanto Glesion sia amante del registro alto.

    "Animo impavido, giace sospeso
    tra pessimismo ed ebbrezza di note
    tristi, che rigano il foglio e le gote
    mentre quel volto rimane disteso."


    Questa strofa è la mia strofa preferita. Credo che colga bene la dualità del poeta fra abbattimento ed euforia - benché un'euforia triste - mentre scrive.

    Grazie j! :)
     
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    Da una porta segreta la trasparenza delle stelle.

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    Dopo i commenti di Pecco risulta difficile dire altro, talmente sono minuziosi :P Molte cose che volevo dire le ha dette lui.
    Ad ogni modo trovo che il linguaggio usato si sposi bene al tema che è Glesion, per il parallelismo che và a formarsi con la sua ricerca di perfezione all'interno del percorso poetico.
    "Albeggia cupo il mistero" mi è piaciuto molto, bel contrasto.
    La chiusa è fatta di parole da tenere care.

    Complimenti Askar!
     
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    CITAZIONE (Kira~ @ 28/3/2024, 10:32) 
    Dopo i commenti di Pecco risulta difficile dire altro, talmente sono minuziosi :P Molte cose che volevo dire le ha dette lui.
    Ad ogni modo trovo che il linguaggio usato si sposi bene al tema che è Glesion, per il parallelismo che và a formarsi con la sua ricerca di perfezione all'interno del percorso poetico.
    "Albeggia cupo il mistero" mi è piaciuto molto, bel contrasto.
    La chiusa è fatta di parole da tenere care.

    Complimenti Askar!

    :flower:

    Aspettate il turno di Darth, sarà lì la vera sorpresa, con la prima poesia in cui rompo gli schemi (o perlomeno i miei). :)
     
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