| Punto di partenza: in qualche modo, si deve pur iniziare
Era una serata tra amici. Per meglio dire, io ero amico del padrone di casa, lei era un’amica d’una amica di lui. Non la conoscevo, così come non conoscevo nessun altro di coloro che in quel momento si trovavano in quel piccolo appartamento del centro di Milano di cui si festeggiava l’inaugurazione, eccetto, ovviamente, Guglielmo, l’anfitrione, e Riccardo, che mi aveva accompagnato in macchina e che, con me, aveva in comune l’essere stato compagno di classe di Guglielmo ai tempi del liceo. Fu pertanto obbligatorio il solito sofferto giro di presentazioni in cui dovevo rivelare il mio nome, Gregorio; il suo era un nome che era una prospettiva di futuro: Sara. Sara. Sara. Sara. Sara. Sara. Sara. Sarà cosa? Sarà un’altra illusione d’una sera, sarà sera e sarà mattino, come il primo così anche l’ultimo giorno. Era il mio fototipo di ragazza: longilinea, colorito tendente al pallore, capelli mori ondulati, zigomi leggermente evidenti sul viso ovale, fronte alta, sopracciglia ben sagomate, naso dritto in una dolce inclinazione a dare un tocco di signorilità. Naturalmente, questo non voleva dire nulla: nella mia vita, m’ero innamorato solo di ragazze che non corrispondevano a quel modello, ma se dovevo rispondere alla solita stupida domanda “com’è la tua ragazza ideale”, in genere fornivo un identikit con queste somiglianze. Franca stretta di mano, un sorriso, poi la fase di studio. Quando mi trovo in mezzo a persone che non conosco, non mi butto mai a capofitto nelle loro vite: osservo i loro comportamenti, ascolto qual è l’oggetto delle loro conversazioni. Parlavo con Riccardo, parlavo con Guglielmo; iniziavo a spiccicare qualche parola con Filippo e con Stefano. La mia funzione di tappezzeria era aggravata dalla mia posizione, in disparte, a sostegno dello stipite della porta che collegava cucina e camera. L’appartamento era piccolo, adatto ad uno studente universitario, alcool ce n’era in abbondanza, ma sedie no, erano cinque o sei, più un divano, su cui sedevano tre ragazze tra cui lei. Bruscamente, lei seduta ed io appoggiato alla porta, mi chiese se studiassi editoria. No, studiavo giurisprudenza. Aveva capito male quello che le aveva detto l’amica del mio amico. Esiste poi una facoltà di editoria? Con l’editoria avrei forse potuto avere contatti se mi fossi deciso a pubblicare quegli scritti che tenevo allora nel cassetto. Lei comunque stava già parlando con le sue amiche sul divano, io ero tornato a fingermi interessato ad un blog di psicologia che Stefano teneva con discreto successo dando approfonditi consigli sapienziali ai suoi lettori, come: “Se vuoi fare qualcosa, fallo”; “Svegliati, cazzo!, che il mondo non aspetta te!”; “La tua vita dipende da te, tira fuori le palle e combatti!”. Consigli che fa sempre piacere ritrovare: sono quelli più utili e necessari. Avevamo finito il cibo, avevamo finito l’alcool. Per terminare la serata, potevamo andare a fare una passeggiata per il centro. Non dovetti far altro che una rotazione semicompleta per giungere a prendere il mio cappotto che era stato appoggiato sul letto. Anche gli altri seguirono il mio esempio ed entrarono in camera a setacciare nella mota sul letto quale fosse il loro cappotto. Per far spazio alla folla, mi misi da parte e mi finsi interessato alla vista che si scorgeva dalla finestra della camera: non c’era panorama, la visuale dava direttamente sul muro di una piccola chiesa sconsacrata distante, in linea d’aria, non oltre tre metri. Non era interessante, mi girai. Lei era rimasta l’ultima a prendere il suo soprabito. Un sorriso. Un’occhiata dintorno. Cosa c’era in quella stanza? Un letto, con la coperta a quadri colorati; al suo fianco un comodino, con sopra un’abat-jour, una sveglia e un libro; di fronte, sul lato della porta, una cassapanca che reggeva una lampada ed una statuetta, forse in bronzo, che raffigurava un cavallo di possente muscolatura, inarcato in uno sforzo inenarrabile con tutto il peso posto sulle zampe posteriori piegate, il crine fluente, il muso sfigurato dallo sforzo. E lei in mezzo alla stanza. Le sue parole, con la sua pronuncia marcatamente lombarda. - Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano?
Svolgimento primo: lo garantisco, le cose sono andate proprio così
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? Rispondere. Rispondere. Che razza di domanda! Perché proprio una domanda del genere? Non c’è tempo di pensare il perché. Cosa si può rispondere? - Del genere umano? No, semmai del genere animale. Pessima soluzione. Continuare per correggere e dire qualcosa di meglio. - Ma poi, perché dovrebbe essere una rappresentazione di sofferenza? C’è in lui una forza indomita che dà energia. Bene. Avanti così. - Anche la sua posizione, così… Così cosa? Manca un aggettivo! Gregorio, cacchio!, possibile che, per ogni passo in avanti, dopo ne fai sempre due indietro? - Tutta sulle zampe posteriori, ma il busto è tutto proteso verso l’alto. Dà un messaggio positivo. È lanciato verso il cielo, verso il futuro. Finito. Avevo parlato anche troppo. Lei cosa avrebbe detto? Cosa stava pensando? Che si aspettava dal rivolgermi una simile domanda? Non mi stava sorridendo. Stava mordendosi con molto contegno il labbro inferiore, le pupille stavano vagando in cerca di un punto da fissare. Tutti pronti? Tutti incappottati? Fuori dall’appartamento, Guglielmo stava per chiudere le porte, si usciva a prendere un po’ d’aria e a fare una passeggiata. Non parlai più con lei, forse nemmeno le rivolsi un saluto personale al momento di congedarci. Addio sera, sarà per il futuro! Dovevo capire cosa avevo sbagliato. Avevo lanciato un messaggio positivo, avevo dimostrato di essere una persona fiduciosa nei propri mezzi e nell’avvenire. Probabilmente, il punto di partenza stava nelle sue aspettative. Aveva fatto quella domanda semplicemente per dire qualcosa, io invece sono andato oltre il qualcosa e ho tentato di rispondere con un pensiero. Lei ha mancato di rispondermi perché l’ho messa nell’imbarazzo di dover dare una replica adeguata, ma l’improvvisazione, l’ora tarda della sera e l’alcool in corpo non agevolano un agile formulazione di idee. In fin dei conti, neppure ci conoscevamo, non sapeva che tipo ero, se stessi scherzando, se la stessi prendendo in giro, se quello fosse stato il pensiero più profondo che avessi elaborato nella mia vita o se fosse stata una semplice e banale constatazione, se fosse stato un caso fortuito a dare un senso egregiamente compiuto alle parole uscite dalla mia bocca. Sono stato troppo serioso, dovevo mantenere più leggero il tono della conversazione.
Svolgimento secondo: si privino le parole del loro peso, si lascino fluttuare a mezz’aria
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? Ho imparato la lezione. È una domanda fatta a caso. Poteva chiedermi se secondo me il giorno dopo sarebbe piovuto, o se ero mai stato a Milano. Ha scelto di chiedermi se quella statuetta rappresentasse la sofferenza del genere umano. Può capitare. Dal gran mazzo delle domande che si fanno per riempire gli attimi di imbarazzato silenzio quando si trovano viso a viso due persone che non si conoscono, non sempre escono gli interrogativi più comuni: nel gran gioco della statistica, anche le percentuali più infime hanno la possibilità di saltar fuori. Questa volta, era spuntata la domanda se mai una statuetta in bronzo sulla cassapanca di una camera di uno studente universitario potesse rappresentare la sofferenza umana. - Può darsi, può darsi… Non è granché come statuetta. Una risposta di questo tipo avrebbe forse richiesto altro. Limitandosi a fare una constatazione, si dà una risposta qualunque ad una domanda qualunque. Si dicono parole senza dire alcunché. E nel momento in cui quell’istante di sofferto silenzio è riempito, che succede? Si prosegue con la conversazione? Lei forse mi rispose? No che non rispose! Anzi, non ha neppure ascoltato quello che ho detto, ha preso la sua giacchetta e se n’è uscita dalla stanza seguendo gli altri. Io rimasi lì, impalato, a guardare amaramente quella statuetta: sì, faceva abbastanza pena, sarà stata made in China. Guglielmo mi chiese cos’avessi intenzione di fare, se rimanere lì per tutta la notte o seguirli nell’uscita serale. Gli feci notare che razza di paccottiglia kitsch tenesse in stanza: ah già, quella statuetta, boh, non si sa come sia finita lì, vabbè, adesso andavamo in un bel posticino, in genere c’era sempre un mucchio di gente simpatica. Invece non c’era gente. Non c’era neanche alcuna ragione per parlare nuovamente con lei. Non ci sono più stati momenti di silenzio quella sera nelle nostre conversazioni di giovani ventenni, c’era silenzio nelle nostre menti, nel nostro cuore, facevamo uscire dalla bocca i soliti discorsi convenzionali che fanno bussare all’orecchio parole che il cervello si rifiuta di far entrare. Quella sera di ottobre era fredda.
Svolgimento terzo: contrattacco e ribaltamento di fronte
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? Sono ancora convinto che sia stata una domanda gettata a caso. Era stata fatta sovrappensiero, cos’altro si poteva dire? “Ah, carino questo posto”? Beh, signorina mia, tu sei un’incosciente! Tu credi di aver fatto una domanda qualunque, e intanto lasci me a pensare una risposta accettabile! Prova a metterti nei miei panni, bella mora. - Dici? Tu cosa ne pensi? Colpo da biliardo. Quante palline erano finite in buca? Avevo guadagnato tempo; mi ero dimostrato interessato alle sue parole; l’avevo costretta a dover dare una risposta; lasciavo a lei l’iniziativa su cui calibrare le prossime mosse. Ma a che prezzo? Qual è il prezzo della vittoria? Apparivo succube, irresoluto, privo di un’opinione. Lei, lei aveva fatto una domanda e ora si ritrovava quella stessa domanda ritorta verso di lei. Non le interessava proseguire quella conversazione superflua. Doveva parlare, però. - Mah… Secondo me, sì. Uscì dalla stanza, scrollando le spalle e scuotendo la testa. Ha parlato, però. Ha pronunciato una sentenza di condanna. Non solo contro il feticcio emblema della sofferenza animale dell’uomo, ma contro chi soffre dell’irresolutezza e dell’incapacità di saper prendere in mano la situazione. Se ne uscì dalla stanza, amareggiata verso tutti: perché una ragazza bella e intelligente è condannata a conoscere solo mezze seghe? Solo quello è il genere di persone che circola al mondo d’oggi? Ma, ragazza mia, tu cos’hai fatto per dimostrarti diversa? Hai stimolato una conversazione? Perché incolpi me quando tu stessa ai miei occhi appari così come io ti sono apparso? Creature silenti, supponenti, ricolme di orgoglio e di pregiudizi. Non hai messo le tue opinioni sul tavolo, ragazza. Hai semplicemente espresso un’impressione ingiustificata, senza curarti di capire se chi ti ascoltava poteva ribatterti. Mentre passeggiavamo con gli altri, quella sera, lei guardava le vetrine che rispecchiavano la sua immagine. Anch’io vedevo la mia immagine, ognuno vedeva la propria. Noi eravamo quelli, quei fragili spettri nel vetri, rimandavamo la nostra immagine sul mondo che fingeva di accoglierci.
Svolgimento quarto: mai contraddire una donna
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? Va bene, un’opinione occorreva, altrimenti ci si condannava al destino tipico del nostro mondo: la superficialità, l’indifferenza, l’inconsistenza. Solo chi ha un’opinione può esistere, gli altri fanno solamente numero. Fanno rumore, fanno presenza, fanno apparenza: fanno, ma non sono. Fondamentalmente, potevo dire sì, o dire no. Dicendo di sì, coglievo un risultato duplice: oltre ad aver dato un’opinione, dimostravo di andare d’accordo con lei. - Io penso di sì, hai ragione. Sei un’acuta osservatrice! Sorriso tronfio, mio e suo, ma, mentre il mio scomparve subito, il suo persisteva. La donna ha raggiunto il suo scopo, quello di aver ottenuto ragione. È stata blandita, è stato riconosciuto il suo punto di vista, il suo intelletto, il suo acume: aveva vinto. Ogni nostro gesto deve essere interpretato come una prova di forza, ogni nostra parola come una mossa idonea a porre in scacco l’avversario. Siamo persone deboli ed insicure, abbiamo sempre bisogno che gli altri ci confortino nella nostra opinione per sentirci forti all’interno di uno schieramento comune. Non aveva alcun bisogno di rispondere. Uscì dalla stanza, io dietro di lei: Guglielmo stava attendendo per chiudere la porta, mentre gli altri già iniziavano a scendere le scale. Lei, rinfrancata dalla vittoria, vociferava con le amiche, quasi a tenere comizio e pontificare, passeggiando per la strada in cui, intirizzite dal freddo, rade figure camminavano svelte vogliose di ripararsi al caldo nell’interno di un locale o di una qualche stanza. Io stavo zitto, scambiavo qualche parola con gli altri senza alcuna voglia ma soltanto per ricordarmi della mia presenza. Com’è gelido il senso di inutilità!
Svolgimento quinto: no? e come no?
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? Abbiamo capito, si può rispondere sì o no. Ma a rispondere di sì, lei avrebbe semplicemente trovato un conforto nelle sue idee senza alcuna intenzione di continuare la conversazione, paga del successo ottenuto; ma avevo già tentato anche la strada del no, perdendomi in troppe spiegazioni e riflessioni. Scartata la strada del forse, insipida ed insicura, sarebbe stato il caso di tornare a replicare con tono duro e deciso. - No! No! Forte e chiaro, il no si innalza come scudo agli strali di parole e di pensieri che ci piovono addosso da tutte le direzioni. Io dico no, io mi oppongo, io contesto quello che tu dici: hai capito, ragazza? Così, senza altre spiegazioni, con fermezza io ho assunto una posizione fiera in contrapposizione alla tua. Era pugnace il mio sguardo, era saldo il mio profilo; lei ne era rimasta sorpresa, indubbiamente sorpresa: nella nostra bella società, era buona educazione non mostrarsi mai così apertamente ostili all’opinione altrui, era sempre bene trovare un accomodamento o semplicemente fingere di accondiscendere al luogo comune evitando di impegnarsi in ragionamenti non richiesti. Non siamo mai stati abituati all’indipendenza intellettuale. Sara era perplessa, avrebbe dovuto chiedermi il perché di questa feroce risposta che la feriva, eppure non lo fece. Non l’avrebbe mai fatto, perché chi dimostrava un simile accanimento nel dare una risposta negativa, tanto più – pensava – avrebbe svilito ogni tentativo di ribattuta. A che scopo parlare con chi non si dimostrava capace di accogliere il nostro pensiero? Così, lei, sbattendo nervosamente le palpebre, con uno spontaneo moto di innalzamento delle spalle si mise il cappotto e se ne andò. Io dietro di lei, lasciammo l’appartamento insieme agli altri. Notavo, mentre passeggiavamo per le vie della città, le sue occhiate di sfuggita verso di me e la svagatezza con cui ascoltava quello che le dicevano gli altri. Anch’io provai a rivolgerle ancora la parola, ma lei ormai era concentrata sui suoi pensieri. Stava riflettendo su quanta incomunicabilità ci fosse al giorno d’oggi, su quanta solitudine ogni persona fosse condannata a soffrire nella propria vita senza alcuna possibilità di riuscire a farsi accogliere dagli altri.
Svolgimento sesto: non era detto che tutto dovesse terminare lì
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? Forse non era necessario rispondere subito. Forse non era quello il set decisivo. Forse si poteva rimandare: magari dare sì una risposta, una risposta qualsiasi, ma non ritenere che quello potesse essere il momento decisivo. D’altronde, il luogo non era favorevole: una camera da letto di un amico, pensieri malevoli a parte, non era l’ambiente ideale per fare conoscenza, perlomeno non quel genere di conoscenza basato su uno scambio di idee. Il tempo neppure: tutti gli altri avevano già preso le loro giacche e, chiacchierando, stavano dirigendosi verso le scale per partecipare al tour di Milano by night. Si poteva dare una risposta qualunquista, nessuna risposta, si sarebbe ripreso l’argomento in seguito, passeggiando; l’importante era non fornire un’impressione di chiusura. Lì per lì, bastavano poche parole. Poi, discese le scale, occorreva insistere e perseverare. Ovviamente, non si poteva parlare per tutta la sera di soprammobili in bronzo raffiguranti cavalli. Si discorreva, così, con leggerezza, di questo e di quello. Ma nulla di incisivo, nulla di decisivo. L’occasione propizia era stata perduta. Essendo presenti anche gli altri amici, la conversazione si diramava in numerose direzioni, non riusciva a sostare sufficientemente su un punto per poter approfondire ciò che era stato toccato velocemente in modo superficiale. Probabilmente, non era neppure nostra intenzione. Non in quel momento, quindi mai: l’attimo era sfuggito. Forse avrei potuto avere altre occasioni in futuro. Forse avrei potuto chiedere all’amica del mio amico il numero di cellulare. Forse avrei potuto cercare se fosse presente in qualche social network. E poi? E poi? Poi più nulla, che cosa avrei potuto dire? Ehi, ciao, ti ricordi di me?, ieri sera, da Guglielmo, sì, già, bella serata, eh?, speriamo di farne un’altra dello stesso tipo, ci vediamo, stammi bene. Parole dallo stesso tenore della nostra stretta di mano al momento di congedarci, un sorriso sfuggente e null’altro.
Svolgimento settimo: il luogo comune, il colpevole perfetto
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? Ormai il ventaglio delle possibilità andava esaurendosi. Una qualche forma di conversazione doveva essere fatta, lì, in quel momento. Possibilmente, occorreva non limitarsi a fornire una risposta alla sua domanda perché simili parole sarebbero cadute al loro compimento, avrebbero esaurito la loro funzione nel momento stesso della loro pronuncia. Bisognava lambire altri spunti a partire da quella domanda. Il modo più sicuro per accordarsi tra dialoganti è individuare i luoghi comuni della nostra mentalità: unendoli tra loro, come i puntini nei giochi di enigmistica, si può dar forma ad un pensiero e ad un discorso. Io e Sara che luogo comune potevamo avere? Colui che abitava il luogo in cui ci trovavamo: Guglielmo! - Forse. L’importante è che Guglielmo non vada in depressione a forza di vedere questo coso come prima immagine quando la mattina apre gli occhi svegliandosi. Conoscendolo, c’è questo rischio. Tu che ne dici? È da molto che conosci Guglielmo? Avevo saputo gestire la conversazione, anche dimostrando una certa maestria, oserei dire. Un simile eloquio era nelle mie ideali potenzialità, ma raramente nella mia realtà, visto che di solito riesco ad impappinarmi in ogni frase che pronuncio. Lei avrebbe dovuto continuare la conversazione. - Se devo essere sincera, non conosco molto bene Guglielmo. Spero proprio che non sia così. Prese il cappotto e se ne andò. Uscendo velocemente dalla porta verso le scale, diede un’occhiata sospettosa all’amico della sua amica, come per incolparlo della scelta dei soprammobili della sua casa, o forse della scelta delle proprie amicizie. Corrucciai le labbra in una smorfia di insoddisfazione e scesi anch’io all’aria aperta seguendo gli altri. Io a Guglielmo non potevo rimproverare alcunché, avevo da tenere per me le proteste per come era andata a finire anche questa occasione. Parlare di un uomo qualunque, di un uomo comune, di un luogo comune sarebbe stato facile, tranne che per quelli che si rifiutano di parlare di cose che a loro non interessano. A questo tipo di persone, piace parlare unicamente di ciò di cui non si parla mai.
Svolgimento ottavo: il coccodrilletto il fiume discese
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? La logica non aiuta. Io sospetto che spesso abbiamo paura della logica, perché, con le sue concatenazioni e conseguenza, dà l’impressione di un destino ineluttabile all’interno di uno schema prefissato che imprigiona ogni slancio ed ogni fantasia. Per questo motivo, bisogna saper utilizzare l’intelligenza non per essere logici, ma per essere originali. È così che ci si imprime nella mente altrui e che ci si dà una propria consistenza. E allora, bisognava stupire! Bisognava spiazzare! Dire qualcosa di completamente altro. - Il coccodrilletto il fiume discese e a nuotare sorprese di pesci un gruppetto. La frase proveniva da quel che diceva il Brucaliffo ad Alice nel suo viaggio all’interno del paese delle meraviglie. Presumo che il mio tono fosse quello utilizzato dal buffo personaggio del romanzo di Carroll: pacato, compunto, profondo, svagato, ispirato. Era un enigma, o forse una massima sapienziale, o forse anche una visione. Forse erano solo parole scelte del tutto casualmente, non saprei dire come mai mi fossero venute in mente proprio quelle per evidenziare la mia totale estraneità rispetto al canovaccio domanda-risposta. Mi pareva comunque una bella frase: semplice, musicale e suggestiva. Ottenne l’effetto immaginato. - Come, scusa? La signorina Sara era meravigliata. Più che meravigliata, incredula; oserei dire: sconvolta. Non si capacitava di ciò che aveva udito, era frastornata come quando ci si risveglia da un sogno incredibile. Chissà, magari non aveva capito bene, aveva frainteso le mie parole, le era sfuggito qualcosa. No, no: avevo detto proprio così, ero anche pronto a ripeterglielo. Se l’avessi fatto, se gli avessi ripetuto la medesima frase o se anche avessi optato per altre parole che portassero impressa la stigmate della originalità, non avrei ottenuto un esito diverso rispetto a quello ottenuto con lo spiegarle che cosa intendevo dire, che quelle erano parole provenienti dal personaggio di un romanzo, che l’unica connotazione che ci possa caratterizzare è la capacità di dire qualcosa di diverso dal solito, che comunque la mia era una risposta assurda ad una sua domanda altrettanto assurda. Potevo scegliere qualunque di queste strade, a quel punto la mia sorte era già stata segnata. Ero stato preso per uno squinternato, per un pazzo forse pure pericoloso. Lei mi diede un’occhiata spaventata, come se fossi stato chissà quale mostro, e se ne uscì lesta con il suo cappotto sotto braccio. Già, in questo mondo non si può essere sicuri di nessuno, anche la persona che ti trovi accanto potrebbe essere un inquietante psicopatico. È un mondo pieno di pericoli, quello in cui si muove la nostra società attuale, la nostra splendida e scintillante società del benessere, con le sue vetrine traboccanti di cianfrusaglie e di bar pieni di gente allegra ed ubriaca, ubriaca ed allegra. Fa paura chi mina le nostre sicurezze.
Svolgimento nono: fingere è totalmente inutile
- Secondo te, quel cavallo rappresenta la sofferenza del genere umano? Sara, mi arrendo. Sono estenuato da questa battaglia! Che cosa avrei dovuto dire? Quali erano le parole che ti aspettavi? Cosa credevi che io potessi rispondere? Nulla mi interessava di quel cavallo, nulla mi interessava della sofferenza del genere umano. Tu mi interessavi. Tu, con tutta la tua presunzione. Tu, con quell’aria di sfida e quelle pupille che come braci ti ardevano negli occhi scuri. Perché mai avrei dovuto parlare di un oggettucolo che non mi apparteneva? Occorre non mentire a sé stessi. Compromessi, bah! Se le cose stanno in un modo, forza e coraggio!, si va per quella strada! - Sara, ascolta. Non rispondo alla tua domanda perché di questo soprammobile non mi interessa nulla. Ora sei tu al centro della mia attenzione. Sei una bella ragazza, ed accetta come un meritato regalo questo complimento anche se è un parere soggettivo. Che tu sia intelligente, lo sai già benissimo e lo fai trasparire dal tuo modo di porti. Al di là di questo, però, non riesco a giudicare altro di te, per quel poco tempo che abbiamo avuto a disposizione in questa serata. Vorrei che ci fossero altre occasioni per conoscerci, perché io possa capire i tuoi interessi, gli obiettivi ed i progetti che ti dai, quello che pensi della vita, come nascono e si agitano i tuoi sentimenti. Vorrei conoscerti, Sara. Dimmi: è possibile che ci incontriamo nuovamente? Posso chiederti il tuo numero di telefono? Possiamo mantenerci in contatto? Io sono una persona che non ama le compagnie: avrai notato quanto sia stato taciturno in questa serata. Non hai avuto modo di capire come sono: dammene l’opportunità! Questo mi passava in testa e, per una buona volta, riusciva a trasferirsi sulle mie labbra in un discorso sincero e sensato. Mi ero liberato il cuore, è vero, ma sarebbe stata una vana illusione aspettarsi che le mie parole cogliessero nel segno. Solo nei copioni già scritti una donna avrebbe potuto ascoltare con interesse le mie parole e rispondere adeguatamente. Nella realtà questo non può avvenire perché i ruoli che ci siamo dati devono mantenersi in una rigida formalità. Non intendo assolutamente che si è soliti comportarsi con cortesia o con maniere da salotto buono: no, no, no, no! Il formalismo consiste nel mantenersi in una certa forma che è quella che è confacente alla realtà che vivi: perciò, se sei nel mezzo di una compagnia di amici ventenni, devi essere brillante, allegro, loquace, mostrare affabilità, cianciare di stronzate per tutta la serata, intercalare una qualche bestemmia se vuoi attirare un attimo l’attenzione su di te, alzare la voce, coinvolgere gli altri nei tuoi scherzi come se tu fossi un animatore da villaggio turistico. Chi esce da questo modello, è degno di sospetto. Chi osa manifestare quello che si agita nella sua mente, rischia di destabilizzare gli schemi. È pericoloso. È un malato mentale, un maniaco, un paranoico. È questo che deve aver pensato Sara al termine del mio discorso. Le sue labbra si mossero alla ricerca di una qualche replica che si concretizzò in null’altro che in un impercettibile bisbiglio. Voltò rapidamente le spalle ed uscì dalla stanza prendendo con sé la giacca e qualche brandello delle mie parole.
Punto d’arrivo: alla fine, sempre qui si conclude
Avrei la tentazione di dire che è tutto inutile: qualunque cosa si faccia, sempre allo stesso modo si va a finire. Magari si migliora un’impressione, ma non l’esito conclusivo. Non era destino, già… Qualunque strada si fosse presa, il destino già mi aveva preceduto e mi avrebbe atteso finché fossi arrivato lì dove voleva lui. Destino, destino: caro destino, se tu esistessi, che gusto avresti nello sfidare gli esseri umani in giochetti che sei sempre certo di vincere tu? Diciamocelo chiaro e tondo: lei, Sara, non intendeva fare altro che parlare, perché il silenzio, nella nostra epoca, è tabù; ho sbagliato io a voler cercare di trasformare una frase qualunque in un modo di poter relazionarmi con una persona che non era interessata a me. Se mancava una volontà di reazione da parte sua, avrei potuto fare tutti gli sforzi che mi erano possibili, ma sempre avrei ottenuto lo stesso esito. Non basta una volontà a cambiare il proprio mondo: è necessario che ad essa se ne aggiunga un’altra, la volontà di chi è disposto a credere e a dare fiducia agli altri. Non ho più rivisto Sara. Avrà proseguito con i suoi studi di medicina e sarà sicuramente diventata un medico coscienzioso. Avrà conosciuto il passare degli anni, il passare della gioventù, il passare degli amici, il passare delle emozioni, il passare degli attimi non colti. Sarà sicuramente rimasta un’ottima persona, nella misura in cui è possibile rimanerlo quando, arrivati all’età matura, si è arrivati a conquistare il proprio posto sul palcoscenico del mondo. |
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