Fantasmi a Serralta

Un racconto gotico

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    Il freddo degli inverni di Serralta era duro e sferzante come la bacchetta di un maestro severo, una corona di ghiaccio che intorpidiva il corpo e rallentava i pensieri.
    Le giornate erano lente agonie; iniziavano quando ancora la luce era un miraggio sbiadito e terminavano quando il buio era tanto fitto da far dolere la vista. Il gelo e il lavoro nei campi irrigidivano i muscoli e mordevano le ossa; la pelle delle mani si faceva ruvida come la tela di un vecchio quadro; sangue e terra la impiastravano, ricoprendone il pallore.
    La gente di Serralta non aveva voglia di parlare, perché anche muovere la bocca significava prestarsi al dolore. Pregava solo, a denti stretti, che la giornata passasse il prima possibile.
    Poi, al calar del sole, tutti tornavano a riempire le casupole del borgo; bagliori ondeggianti occhieggiavano dalle finestre storte, gettando ombre lunghe sulla terra battuta.
    L’aria cambiava odore, e si riempiva dell’aroma d’ulivo bruciato che sgorgava dai comignoli. Una nebbia densa si adagiava su Serralta, e in quelle nebbia poteva capitare, talvolta, di scorgere figure scure che si muovevano senza fretta, ricoperte da ampi scialli di lana. Poi una porta s’apriva, una luce di fiamme fendeva la nebbia, e le figure venivano inghiottite nella casa di questo o di quell’altro vicino.
    Attorno ai camini accesi gli anziani tentavano, come sapevano, di esorcizzare l’inquietudine che veniva portata dal buio delle notti d’inverno, quando anche le cicale sospendevano il loro canto e su tutto si riversava una quiete di morte.
    «Ti dico che è vero, Mimi’» stava dicendo compare Nuccio, fissando gli occhi scavati in quelli di compare Mimino «mio fratello l’ha visto con gli occhi suoi, ha visto la bonanima di mio padre»
    «E che faceva?» domandò comma’ Lena, mentre si strofinava le mani davanti al fuoco.
    «Stava immobile in mezzo ai campi. Era buio, non era ancora l’alba. Non si vedeva granchè»
    «Io non ci credo» sentenziò Mimino «’ste cose di streghe, fantasmi… tutte eresie. Risorgeremo tutti alla fine dei tempi» sollevò un dito ammonitore «fino ad allora… riposiamo nella pace di Cristo»
    «’ste storie m’arizzano le carni» intervenne donna Lucia, moglie di Nuccio «io nemmeno ci credo. Ma preferisco non pensarci»
    Cadde un silenzio denso, riempito solo dallo scoppiettare delle fiamme e dagli spifferi di vento che si infilavano tra le intercapedini dei vecchi infissi. Iniziava a farsi tardi, forse ognuno sarebbe dovuto rientrare alle proprie case a riposare in vista del nuovo giorno di lavoro. Eppure, nessuno voleva realmente andare via.
    «Io i fantasmi li ho visti» parlò infine Mestu Pasquale, che fino ad allora era rimasto in disparte. Era un vecchio sarto in pensione, aveva ormai più di ottant'anni. Non era mai stato un uomo di molte parole. Per questo, forse, tutti drizzarono le orecchie incuriositi al suono della sua voce.
    «Vedete? Ve lo dicevo, non mi state mai a sentire…» commentò Nuccio, con un sorrisetto malizioso.
    «Avevo sedici anni» continuò Pasquale «è passato tanto tempo»
    «Racconta, Mestu Pasqua’, racconta» disse comma’ Lena, che adesso aveva allontanato le mani dal fuoco e si era voltata verso di lui, rinvigorita da tale inaspettata svolta. Tutti pendevano dalle labbra di Mestu Pasquale. E Mestu Pasquale, non senza un brivido d’orrore, cominciò a raccontare.

    *

    Certe memorie dimorano nella nostra mente come spiriti sopiti. Memorie che, quando tornano a infestare la coscienza, perpetuano immagini così vivide e terribili che fatichiamo, talvolta, a riconoscere come frutto della nostra esperienza. Mi sono trovato più e più volte, nel corso della mia lunga vita, a domandarmi se i fatti di questa storia fossero mai stati reali, e non solo il frutto del deperimento delle mie facoltà mentali. Mi basta tuttavia pensare alle conseguenze che essa ha causato (tangibili e innegabili) per dare risposta allo scetticismo tenace della mia ragione.

    Al tempo non ero che un ragazzo, sebbene già dedito al lavoro e avvezzo alle fatiche della campagna. La bonanima di mio padre, Vito, era un umile mezzadro, tra i più stimati nel paese. Era dunque per me motivo di grande orgoglio ogni volta che mi veniva da lui affidato un qualche compito. Ricordo ancora quel giorno: la vigilia di Ognissanti del 1911. Mio padre mi chiese di svegliarmi presto, l’indomani, per andare a raccogliere altre foglie di fico da dare in pasto al bestiame. Non troppo distante da casa nostra, infatti, c’era un campo abbandonato dove eravamo soliti fare scorta di tale foraggio. Così, prima di andare a coricarmi, gli assicurai che il giorno dopo avrebbe trovato quanto chiedeva nel deposito.
    Tuttavia, per qualche motivo che ad oggi mi rimane oscuro, quella notte non riuscivo a prender sonno. Mi rigiravo in continuazione sotto la spessa coperta di lana che mia madre in persona aveva intrecciato, senza però trovare quiete a quella strana agitazione.
    Ero un giovane di poca pazienza, e ben presto la cosa m’irritò. Sapevo che non sarei più riuscito a dormire, così presi la decisione di anticipare a quella notte stessa l’impegno che mi era stato affidato da mio padre.
    Saltai giù dal letto, mi vestii in tutta fretta e mi avventurai nella notte.
    Non c’erano luci a illuminare la notte di Serralta, se non quelle flebili delle fiammelle che tremavano in cima ai pochi lampioni delle strade del centro. Avanzavo nel buio rischiarato appena dalla luna piena, stringendo con una mano il colletto del mio vecchio cappotto nel tentativo di riparare il volto dal gelo dell’autunno.
    Ogni cosa era immota; non incontrai nessuno sulla mia strada, se non il profilo sfrecciante di una volpe e quello sinistro di alcuni gatti, che, appollaiati su muretti a secco, mi osservavano con diffidenza dai loro occhi fiammanti.

    Arrivato al campo raggiunsi il grosso albero di fico, dai rami tanto vecchi e appesantiti da lambire la terra. Strappai a manciate le grosse foglie oblunghe, depositandole senza troppa cura dentro al largo sacco che tenevo tra le gambe. Intorno a me le tenebre erano tanto profonde che non avrei potuto riconoscere la sagoma di un cavallo nemmeno se mi si fosse piazzato al fianco. Avevo tuttavia imparato a non temere il buio e, per me, quella situazione non aveva nulla di anomalo, né di angosciante.
    Una volta finito, feci marcia indietro e mi incamminai nuovamente sulla strada verso il paese. Serralta era un villaggio di dimensioni modeste, allora ancor più di oggi. Non c’erano molte strade che lo attraversavano, e per tornare alla casa dei miei genitori percorrevo quella che, già al tempo, era la via principale del borgo. Tuttavia stavolta, giunto nei pressi della chiesa di Santa Maria della Vittoria, mi sembrò di udire qualcosa che non avrei dovuto, vista l’ora in cui mi trovavo a passare di là. Sembrava il suono metallico, stridente del vecchio organo di legno, che veniva utilizzato soltanto in ricorrenze solenni come la Pasqua o la Natività. In parte incuriosito e in parte inquieto, mi mossi in direzione della facciata principale, così da verificare coi miei stessi occhi quello che le mie orecchie mi volevano portare a credere.
    Dalla piazzetta, solo poco prima illuminata da una fila di lampioni, non proveniva più alcuna luce. Eppure un grande bagliore, ben più intenso di quello prodotto dalle candele in cima ai lampioni, investiva lo spiazzo antistante la chiesa, tanto da costringermi a strizzare le palpebre perchè non ferisse i miei occhi. Dunque non mi sbagliavo! Dalle canne dell’organo provenivano le note di un inno religioso, che dal portone spalancato si levava possente e sinistro nel silenzio della notte. La stretta e corta navata centrale dell’edificio era illuminata da una miriade di candele dalle fiamme vigorose e imperturbabili, e i banconi erano gremiti di fedeli inginocchiati di cui potevo scorgere nient’altro che le spalle avvolte da pesanti scialli. In fondo, nei pressi dell’altare, stava un sacerdote in una tunica scura, del quale pure non potevo vedere il volto. Visione funesta! Se solo potessi oggi sussurrare al mio orecchio ingenuo di fuggire da lì, voltarmi e non far più ritorno! E invece fui vinto dalla curiosità, fui vinto da quella convinzione di invincibilità che è delizia e condanna di ogni giovane uomo.
    Mi feci allora dappresso, domandandomi se non fosse quella la prima messa del mattino, quella che precede l’alba del giorno d’Ognissanti. Mi ero attardato a tal punto, nel campo abbandonato, da perdere ogni cognizione del tempo?
    Ma saliti i gradini di pietra che portavano al sagrato, e ormai a un passo dall’ingresso della chiesa, l’aria fu spazzata da una terrificante folata di vento che estinse ogni luce e fece sbattere con veemenza i grossi battenti del portone, che si serrarono giusto a un palmo dal mio naso.
    Ho forse sognato, fu il mio primo pensiero davanti al portone massiccio. Quella visione era stata nient’altro che una suggestione dei miei sensi, un’immagine inconscia prodotta dalla mia mente stanca.
    Col conforto di una tale convinzione, mi voltai e ridiscesi la scalinata, intenzionato a riprendere la strada verso casa. Raccolsi il sacco pieno di foglie di fico da dove l’avevo lasciato, e subito quel canto stridulo tornò a disturbare la notte. Mi girai di scatto, e ancora una volta quell’apparizione si palesò davanti ai miei occhi. Le voci del coro erano un mormorio sommesso di cui non distinguevo la singola parola. Innervosito, posai il sacco per terra e mi avvicinai di nuovo; tuttavia, ancora una volta, nel giungere alle soglie dell’ingresso le fiamme delle candele svanirono, e un attimo dopo le porte pesanti della piccola chiesa si chiusero davanti davanti ai miei occhi stupefatti.
    Mi parve solo allora di riemergere dallo stato d’ipnosi in cui ero sprofondato. Ridiscesi le scale in preda al terrore, correndo via verso la mia dimora senza voltarmi più indietro.
    Solo una volta giunto a casa mi accorsi di non avere con me il sacco con le foglie di fico.


    L’indomani fui ridestato dalle mani dure di mio padre. Fuori era ancora buio, ma un tenue chiarore cominciava ad allargare le maglie scure della notte.
    «Dove sono le foglie?» mi urlò contro «ti avevo detto di andare a raccogliere le foglie»
    Rimasi in silenzio. Gli eventi della notte precedente riemergevano un pezzo per volta, ancora in parte invischiati nella palude limacciosa che sta tra ciò che è sogno e ciò che è realtà. Raccontai a mio padre di quanto mi era accaduto, non aspettandomi certo che lui credesse a tali follie visionarie. Eppure, alla fine del mio racconto, il suo volto impallidì appena, i suoi occhi si fecero lucidi, e la sua mano destra si mosse a comporre un rapido segno di croce.
    «Non farlo mai più» mi disse duramente. «adesso vestiti in fretta ed esci».

    Durante l’intera giornata non fui capace di allontanare la mia mente dagli avvenimenti straordinari della notte precedente. Mi sentivo impazzire, impazzire! Ogni ombra mi spaventava, ogni suono a me familiare era diventato fonte di angoscia.
    Eppure nessuno sembrò avvedersi di questa mia condizione singolare. Nessuno tranne mio cugino Pompeo. Eravamo come fratelli, io e mio cugino; nati nello stesso anno, avevamo condiviso tutto, dai giochi per le strade ai dolori che avevano imperversato come venti furiosi sulla nostra famiglia. Quel giorno Pompeo mi domandò il motivo della mia inquietudine, e così, durante il lavoro, raccontai lui per filo e per segno quello che, ormai con lucida certezza, ritenevo essermi accaduto quella notte.
    Fu a quel punto che Pompeo, della cui fiducia nelle mie parole mai avrei dubitato, fece la proposta che ancora oggi rimpiango di aver accettato.
    «Torniamoci insieme stanotte» mi disse.
    Così facemmo.

    Quella notte stessa, che precedeva l’alba del giorno dei Morti, fui destato da una serie di colpi secchi contro la finestra. Riemersi dal sonno dapprima con fastidio, poi con un senso d’improvvisa impellenza. Io e Pompeo avevamo risolto di incontrarci fuori da casa mia alle tre in punto. Eppure, nonostante l’eccitazione, ero così esausto e provato da non esser stato capace di mantenermi in uno stato di veglia. Mi avvicinai alla finestra e la aprii appena. Fuori c’era Pompeo con alcuni sassolini in mano. Mi sorrideva beffardo da labbra vivaci incastrate in un volto bruno che tanto piaceva alle sue coetanee. Negli occhi, scuri come il cielo di quella notte, brillava l’eccitazione del proibito.
    «Arrivo» sussurrai. Poco dopo ero fuori con lui.
    Ci avviammo lungo la strada fredda, buia e deserta che da casa mia portava alla piazzetta di Santa Maria della Vittoria. Non scambiammo una parola, tanta era la trepidazione che soffocava, tra spire strettissime, i nostri pensieri. Alle prime fioche luci dei lampioni le mie mani si fecero scivolose, e la mia vista sembrava pulsare al battito frenetico del mio cuore. Una civetta emerse dal buio circostante e si appollaiò, con un frullo d’ali, su uno degli alti pali fiammeggianti. Lanciò nell’aria immobile due strilli acuti, come monito alla nostra sprovvedutezza. Non ascoltammo il suo richiamo, ed ella rimase a seguirci dall’alto dai suo grossi occhi neri, senza più proferire un suono.
    «Pasqua’, il portone è chiuso» fece Pompeo una volta arrivato di fronte alla facciata della chiesa. La sua voce lasciava trasparire la delusione. Lo fui anch’io, in parte, tuttavia mentirei se non dicessi che nel mio cuore v’era spazio anche per la dolcezza del sollievo. Era quindi stata la mia mente così inferma da avermi fatto immaginare tutto? Quale follia immaginaria aveva gremito di fantasmi i banconi di Santa Maria della Vittoria?
    E mentre cercavo le parole più giuste per esprimere il mio disappunto, Pompeo, che nel frattempo si era allontanato verso il retro della chiesa, mi chiamò:
    «Pasqua’, Pasqua’ da questa parte» la sua voce era sottile, eppure eccitata «è aperto, c’è una luce» vidi sbucare la sua sagoma scura da uno degli angoli squadrati della chiesa. L’ombra lunga del suo braccio danzava sulle chianche appena illuminate, come il tentacolo di un qualche mollusco gigante. Mi feci dappresso, seguendo quell’immagine mostruosa.
    Pompeo aveva ragione, questa volta non poteva essere un inganno del demonio. Una piccola porticina era appena accostata, e dallo spazio stretto tra l’anta e la cornice penetrava una luce soffusa, pulsante. Portava forse nei locali della sagrestia, mi dissi. Tuttavia, nonostante fossi assiduo frequentatore della parrocchia, non l’avevo mai notata prima d’allora.
    «Allora? Hai forse perso la lingua?» ricordo ancora il sorriso nervoso stampato sulle sue labbra. Dopotutto, fu quella l’ultima volta che lo vidi sorridere.
    Non feci mai parola con mio cugino dei miei sospetti riguardo quella strana porta. E forse questo è un altro dei peccati per cui dovrò pagare in eterno.
    «Entriamo» sussurrai soltanto.

    Pompeo fu il primo a infilarsi all’interno. La porticina non dava sulla sacrestia, bensì sulla stretta navata laterale della chiesa.
    I nostri passi rimbombavano nell’aria densissima, pesante di un profumo d’incenso troppo penetrante per essere gradevole.
    Le uniche fonti di luce provenivano dai pressi dell’altare; erano le fiamme di tre alte candele, che spargevano nell’ambiente una luce spettrale.
    La chiesa, ai nostri occhi, appariva deserta come le strade del paese.
    Tuttavia nessuno di noi due si azzardava a proferire parola. Pompeo camminava davanti a me, e io lo seguivo senza fare domande. Solo una volta giunto al termine della navata, in prossimità della corta scalinata che portava all’altare, arrestò bruscamente il suo incedere. Si girò verso di me, e con occhi profondissimi, luccicanti nell’ombra delle alte volte, mormorò:
    «Non siamo soli»
    Mi sporsi con il collo oltre uno dei larghi pilastri grezzi che sorreggevano le arcate laterali, e mi accorsi che sì, non eravamo soli.
    Inginocchiata in uno dei banconi in prima fila, quello più lontano da dove ci trovavamo, stava una donna velata di nero, con le mani giunte davanti al volto. Non ne vedevamo tuttavia il viso, celato dalla penombra e dal velo che le ricadeva sulle spalle.
    «Conosci quella donna?» mi chiese Pompeo. Scossi il capo, incapace di emettere qualsivoglia suono.
    «Sta piangendo» disse Pompeo. E solo allora, aguzzando le orecchie, riconobbi i singulti trattenuti di quell’anima in pena «vado a vedere chi è»
    «Fermati» lo acchiappai per una manica, senza essere capace di dire altro.
    «Torno subito» disse lui, liberandosi facilmente dalla mia presa blanda. Superò l’arcata laterale ed entrò nella navata centrale, dirigendosi verso la misteriosa donna addolorata.
    Seguii ogni suo passo con crescente apprensione, senza distogliere mai lo sguardo. Le scarpe colpivano il pavimento liscio come schioppettate di fucile, che riecheggiavano lente nell’aria gonfia d’incenso.
    Pompeo giunse finalmente al fianco della donna, la quale non dava il minimo segno di essersi avveduta della sua presenza, ed era rimasta immobile nella sua postura, in preghiera. Pompeo mi guardò, e nei suoi occhi scorsi l’incertezza. Tuttavia fu solo un lampo.
    Lo vidi allungare il braccio verso la spalla della donna, poi sfiorarlo gentilmente come a richiamarne l’attenzione.
    Fu questo gesto semplice, istantaneo a generare l’orrore che ancora oggi mi tormenta.
    Il capo dell’essere inginocchiato scattò in direzione di Pompeo, inchiodando sul suo volto uno sguardo al quale la misericordia di Dio decise di sottrarmi; allora vidi gli occhi di mio cugino espandersi fin quasi a sgusciare via dalle orbite, e la sua pelle farsi grigia, floscia come quella di un cadavere. La sua bocca si deformò in un ghigno animalesco, come di chi si trovi a tu per tu con una bestia feroce. Un urlo che non seppi identificare riempì ogni anfratto della chiesa, riecheggiando all’infinito tra le mura spesse di roccia calcarea. Poi una folata di vento soffiò via le luci delle candele, e fummo abbrancati dalle tenebre.

    Mi voltai d’istinto, senza pensare, e nel buio m’affrettai per la strada che avevo percorso, affidandomi a nient’altro che alla mia memoria. So che cosa starete pensando della mia condotta, giudicandola immorale; ebbene, non posso darvi torto. A mia discolpa, tuttavia, posso soltanto dire che il mio cuore era così ricolmo di terrore che non v’era più spazio per altro sentimento, né compassione, né affetto, che pur mi legavano a doppio filo al mio povero cugino.
    Scorsi infine in fondo alla navata una luce tenue, impercettibile, penetrare da una porta. La raggiunsi e la spinsi, poi fui di nuovo all’esterno, sul sagrato di Santa Maria della Vittoria. Mai ci fu cosa più confortevole del gelo di quella notte. Ero fuggito da un incubo, o almeno così mi concessi di sperare per un istante.
    Un verso cupo, malinconico dissolse la fatuità di quel sollievo. Alzai gli occhi e la vidi, ancora appollaiata sull’alto lampione. La civetta mi guardava con occhi enormi, scintillanti di tenebra. Vuoti.
    «Cosa vuoi!» le urlai. E quella, con la sua voce spettrale, mi rispose.
    «Mai più» e ripeté «mai più»
    Spiegò infine le grosse ali e si librò nell’aria notturna, scomparendo per sempre.
    Corsi via senza mai fermarmi né voltarmi indietro. Tornato a casa mi infiali tremante sotto le coperte e cercai di prendere sonno. Ma le immagini della chiesa buia, di quella donna, degli occhi della civetta, del volto di mio cugino erano ancora troppo vivide per permettermelo.

    L’indomani mattina, esausto per la notte insonne, mi alzai alla solita ora tentando di inscenare una versione di me che non destasse sospetti. Con sollievo, nessuno mi fece notare alcunché di insolito; quanto a me, feci di tutto per mantenere credibile la pantomima che stavo facendo di me stesso. Nei campi sorridevo amabilmente, chiacchieravo con tutti, canticchiavo canzonette allegre. Nella mia testa, tuttavia, non v’era spazio per altro che non fosse il pensiero per le sorti di Pompeo. Non l’avevo visto rientrare quella mattina, eppure nessuno sembrava preoccuparsene.
    Poi, infine, apparve. Si trascinava lungo il bordo di un uliveto, con le spalle basse e il capo chino. Lasciai qualsiasi cosa stessi facendo in quel momento e corsi verso di lui, chiamandolo da lontano.
    «Pompeo! Pompeo!»
    Non ottenni risposta, né un qualsivoglia segno che avesse udito la mia voce.
    Lo raggiunsi in affanno e lo strattonai.
    «Sono così felice di vederti» gli dissi con gioia.
    Al mio tocco, però, il suo corpo si ritrasse come elettrizzato e il suo capo scattò verso l’alto. Due occhi sbarrati, striati di sangue, cerchiati da profonde ombre nere, mi fissavano con orrore. La pelle del suo volto era innaturalmente pallida e scavata, e sul suo capo si scorgevano qua e là chiazze di capelli ingrigiti.
    «Cosa ti è accaduto?» chiesi.
    Le sue labbra spaccate presero a tremare, come se qualcosa dall’interno le spingesse, con fatica, a schiudersi. Solo un sussurro emerse da quei lembi di carne pallida; fu un sussurro proferito in una voce grattante, abissale, tanto da sembrar emergere dal profondo della terra:
    «Mai più» disse. E mio cugino Pompeo tacque per sempre.
    Sentii il cuore sprofondare nella fossa profonda delle mie angosce, e tutte le mura che avevo stancamente eretto per dissimulare il germe della follia che mi stava logorando caddero in un istante. Negli occhi di Pompeo vedevo adesso la stessa cieca oscurità che dimorava in quelli della civetta appollaiata sul lampione. Fuggii via strappandomi le vesti, urlando come un ossesso stralci di preghiere e di bestemmie, spintonando chiunque mi si parasse davanti, ridendo sguaiatamente tra le lacrime. Caddi infine all’ombra di un enorme ulivo, e presi a gettarmi la terra negli occhi e nelle orecchie; così, pensavo, sarei forse stato risparmiato dalle atroci conseguenze della mia impudenza.

    Passai le successive due settimane in casa. La quiete e la familiarità di quel posto mi aiutarono a stare meglio. Le faccende domestiche alle quali mi dedicai mi permisero non di dimenticare, ma quantomeno di far sbiadire le immagini mostruose nella mia testa.
    Non vidi mai più mio cugino Pompeo; venni a sapere, successivamente, che si era tolto la vita pochi giorni dopo la nostra ventura notturna. Nessuno mai seppe spiegarsi cosa indusse in lui, che aveva grandemente amato la vita, quel cambiamento così repentino, quale causa suscitò tali distruttive pulsioni di morte.
    Quanto a me, mai più misi piede in Santa Maria della Vittoria, né feci parola con alcuno degli eventi di quella notte d’orrore, se non altro per il timore delle conseguenze. Eppure, non c’è stato giorno in cui non mi sia interrogato su quale mostruosità Pompeo abbia avuto la sciagura di posare gli occhi in quella chiesa. È stato, questo, un pensiero che mi ha perseguitato a lungo; solo adesso, che ho raggiunto la serenità d’animo di chi si avvicina alla fine dei propri giorni, ho avuto il coraggio di sgravare la mia coscienza da questo peso.
    Con la speranza che la questa mia storia possa mettere in guardia chiunque fosse attratto dalla tentazione di guardare oltre. Così che nessun altro debba patire ciò che abbiamo patito io e il mio povero cugino.
    *
    Mestu Pasquale tacque. I convitati lo videro abbassare il capo e chiudersi di nuovo nel silenzio. Compa’ Mimino e comma’ Lena si esibirono in un rapido segno di croce, poi nulla più. Per attimi interminabili, gli unici suoni udibili rimasero il sibilo del vento e lo scoppiettare della legna nel camino.
    «Fesserie» sussurrò poi Mimino. I suoi occhi si spostavano rapidi, senza posa. Nessuno rispose.
    «Si è fatto tardi» disse poi compare Nuccio, schiarendosi la voce «andiamo Luisa, prima che prenda a piovere»
    «Statevi bene» disse Luisa. Poco dopo, lei e il marito scomparvero oltre l’uscio.
    «Vado anch’io» sentenziò poco dopo Mestu Pasquale «Buonanotte. Spero di non avervi tediato con i miei vaneggiamenti» ancora una volta, nessuno rispose.
    «Fesserie, dico io» ripetè Mimino a bassa voce, una volta che lui e sua moglie Lena furono rimasti soli.
    La donna non parlò. Dopo poco si alzò con un gemito, ciabattando verso la camera da letto.
    Mimino rimase a fissare il fuoco ancora a lungo, bofonchiando tra sé e sé.
    Quella notte, quando finalmente riuscì a prendere sonno, sognò di anime danzanti e civette dalle ali enormi, che lo fissavano dai loro occhi d’abisso e gli dicevano mai più, e ripetevano mai più.
     
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    Letto qualche riga... La lettura nel genere per me è il top!
    Me lo gusto con calma e torno a commentare nei prossimi giorni.
    Sei molto bravo, la descrizione iniziale del gelo invernale mi ha davvero intrigato!
     
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    CITAZIONE (Erendal @ 21/4/2024, 23:21) 
    Letto qualche riga... La lettura nel genere per me è il top!
    Me lo gusto con calma e torno a commentare nei prossimi giorni.
    Sei molto bravo, la descrizione iniziale del gelo invernale mi ha davvero intrigato!

    Ti ringrazio. Ti aspetto allora nei prossimi giorni :)
     
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    Da una porta segreta la trasparenza delle stelle.

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    Un brano che è partito in sordina ma che poi mi ha trascinato moltissimo nel proseguire la lettura. Hai un modo di scrivere, a mio parere, curato, pulito ma evocativo allo stesso tempo, ricco di immagini interessanti. Sei riuscito a creare il giusto clima di suggestione, curando sia le descrizioni dei luoghi, sia degli avvenimenti e sia degli stati d'animo dei personaggi. Molto efficace il particolare della civetta in sogno, nel finale.
    I miei complimenti :)
     
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    CITAZIONE (Kira~ @ 23/4/2024, 11:13) 
    Un brano che è partito in sordina ma che poi mi ha trascinato moltissimo nel proseguire la lettura. Hai un modo di scrivere, a mio parere, curato, pulito ma evocativo allo stesso tempo, ricco di immagini interessanti. Sei riuscito a creare il giusto clima di suggestione, curando sia le descrizioni dei luoghi, sia degli avvenimenti e sia degli stati d'animo dei personaggi. Molto efficace il particolare della civetta in sogno, nel finale.
    I miei complimenti :)

    Ti ringrazio per il commento gentile. A presto :)
     
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    Anche io l'ho trovato molto suggestivo in ambientazione, atmosfera e suspance. In pratica tu eccelli dove manco io, nelle descrizioni.
    Ho trovato invece la trama, rispetto alle battute iniziali, un poco lenta... Ma questo perché io sono abituato a scrivere in maniera troppo tambureggiante.
    Dovrei imparare da te...
     
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    CITAZIONE (Erendal @ 23/4/2024, 16:45) 
    Anche io l'ho trovato molto suggestivo in ambientazione, atmosfera e suspance. In pratica tu eccelli dove manco io, nelle descrizioni.
    Ho trovato invece la trama, rispetto alle battute iniziali, un poco lenta... Ma questo perché io sono abituato a scrivere in maniera troppo tambureggiante.
    Dovrei imparare da te...

    Ti ringrazio per aver letto la mia storia e per i complimenti. Sì, sicuramente non c'è molta "azione" nel racconto, ma in parte questo è voluto per dare un'impressione rallentata e "diluita" del tempo, che è un po' l'esperienza di vita lenta che (ho immaginato) vivono gli abitanti del paese. D'altra parte, sicuramente il racconto è migliorabile e apprezzo lo spunto che mi hai dato per ragionarci su :) A presto
     
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    A me è sembrata lenta soltanto la prima parte, mentre la seconda credo abbia un buon equilibrio tra velocità e lentezza. Io trovo che funzioni. :)
     
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    CITAZIONE (Fire Flower @ 30/4/2024, 00:48) 
    A me è sembrata lenta soltanto la prima parte, mentre la seconda credo abbia un buon equilibrio tra velocità e lentezza. Io trovo che funzioni. :)

    Sono d'accordo anche io. La cura per la parte descrittiva a me non è sembrata eccessiva. Anzi...
     
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8 replies since 21/4/2024, 22:16   168 views
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