Inchiostro diVerso - Forum di scrittori e arte

Votes taken by j.darkblue

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    Studiare qualcosa che non piace, non dico che sia impossibile ma senz'altro ti complica l'apprendimento. La passione serve.
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    Ciao Corrado, innanzi tutto benvenuto sul forum.
    Ho visto il tag di kira. Ti rispondo cercando di essere esaustiva.
    Dunque, secondo me, il tuo componimento è un haisan, non un haiku. Adesso ne analizzo i motivi.

    Come saprai lo haiku deve avere un riferimento ben preciso a una stagione ( e a una soltanto).
    Notte stellata può riferirsi a qualsiasi stagione e quindi non va bene.
    Passiamo ad anno nuovo. Se s'interpreta in senso lato, allora qui non c'è alcun kigo invernale e quindi, per conseguenza, nessun haiku.
    Tuttavia, se per anno nuovo s'intendesse il Primo dell'Anno ( o Capodanno che dir si voglia), allora saremmo in presenza di un kigo invernale; e almeno per questione haiku finora ci potremmo essere... se non fosse che, dopo, il verbo sboccia riporta a un riferimento stagionale primaverile. Di conseguenza ci troviamo di fronte a un errore duplice: due kigo e ognuno riferito a una stagione differente.
    A prescindere dal kigo di troppo, comunque, c'è un altro motivo che rende il tuo un haisan: qui ci sono ben tre kireji (due virgole e un punto, ossia uno alla fine di ogni verso). Lo haiku invece ne deve contenere soltanto uno, tassativamente.
    Un altro aspetto da considerare
    nel tuo componimento è poi la presenza del concetto astratto speranze. Negli haiku non ci debbono essere concetti astratti, ma bisogna parlare unicamente delle cose semplici e concrete.
    Lo haiku non vuole titolo, cone già detto. Per classificarli si può usare una numerazione progressiva.
    La prima parola dello haiku è preferibile che sia scritta in minuscolo. Questo per uniformità con la tradizione giapponese.
    Metricamente, adesso, è corretto.
    A prescindere dalla forma il contenuto è molto bello.
    Se ti possono essere utili per approfondire, ho scritto diversi vademecum sugli haiku e sulla poesia giapponese in genere. Li troverai nel forum.
    Se hai delle domande chiedi pure. Forse ho dimenticato qualcosa o non ho risposto chiaramente.
    P. S. Erendal e Kira mi considerano esperta in materia, ma non lo sono. Ho condiviso con il forum quello che ho imparato nel corso degli anni; tutto qui. Come dico sempre sono la prima a dover apprendere ancora tanto. Scrivere buoni haku è difficile!
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    Scusate il ritardo con cui arrivo a votare. Ho riletto i racconti un'altra volta prima di votare.
    Ho votato il racconto di Miss Loryn perché, a mio avviso, è quello, fra tutti, in cui l'elemento gastronomico risulta più marcato e si mantiene tale da inizio a fine. È un fil rouge che spicca pur sul linguaggio allusivo che gioca con le parole ; ma intanto racconta per intero una ricetta.

    Menzione per il racconto di Askar. Mi è piaciuto molto per la stile e la caratterizzazione dei personaggi e sono stata in dubbio se votarlo al posto di quello di Miss.
    Ma non l'ho fatto perché penso che, nell' Ultimo pasto, la componente culinaria non sia sufficientemente esplorata per il genere di narrativa richiesta dal turno. È un racconto troppo fantasy, così come quello di Erendal.
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    È un racconto fantasy molto accattivante. Si intuisce che non è autoconclusivo e che dietro c'è una storia e un mondo ben più complessi. I personaggi sono interessanti e ho l'impressione che i sentimenti che li animano abbiano una gran quantità di chiariscuri.
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    Racconto molto divertente ma anche disincantato. Il protagonista si scontra contro un vero muro d'incomunicabilità.

    Mi piacerebbe leggere un seguito che inverta i punti di vista. Credo che sarebbe ugualmente spassoso!
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    Poesia divertentissima che rende omaggio alla giocosità del poetare di Pecco; un poetare, però, che può essere anche " serioso", volendo.
    Hai riscritto la teogonia a uso e consumo della poeticità di Pecco: assonanze, consonanze, vari giochi di parole. Nei versi c'è ilarità, ovviamente, ma alla fine il tono diventa serio perché una grande verità è dispensata a noi mortali:
    attraverso il gioco non s'invecchia, bensì si diventa immortali.
    La chiusa è, quindi, una sorta di sentenza gnomica con valore universale.
    Bellissima

    Hai dato anche qualche strizzatina d'occhio alla Teogonia di Esiodo o mi sbaglio?
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    Hai un'anima sensibissima, Violetta; e come tutte le persone sensibili vedi il mondo attraverso colori più vividi ma ciò implica anche soffrire di più. Ti auguro di trovare serenità e gioia nella tua vita.

    Come nella poesia dello scorso turno, questi versi sono fortemente intimistici. Parli dell'altro (in questo caso Pecco) parlando di te. È il tuo riflesso allo specchio che si estende sempre più all'esterno e cerca di ricreare l'immagine di Pecco attraverso una rete di similitudini con te stessa. Trovi le affinità emotive e parti da lì per descrivere un mondo interiore condiviso.
    Crei immagini intense che rimangono nel cuore del lettore.
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    In questa poesia c'è molta, moltissima ironia; un giocare con le parole che, in questa occasione, trovandosi in bilico lungo una linea sottile, rischia talvolta di essere una strada sdrucciolevole.
    Molti riferimenti, tuttavia, non li ho compresi; quindi anche il significato l'ho colto a grandi linee.
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    Idem.
    Grazie anche da parte mia.
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    Ciao Askar,
    arrivo a commentare con ritardo, ma ci sono.
    La tua è una poesia bellissima che riscalda il cuore con i suoi caldi raggi (per restare in tema col sole).
    Il ritatto che emerge di Pecco è particolareggiato e, penso io, vicino alla realtà sotto molti aspetti: il suo sentirsi cittadino del mondo e avere il sole nello zaino: un sole metaforico, non soltanto reale, che lo accompagna così come la sua giocosità.
    Ho amato particolarmente le prime due strofe.
    Stilisticamente i versi sono curati e le immagini che intrecciano si dipanano lungo gli assi portanti del poetare di Pecco: l'aspetto ludico del linguaggio e la profondità che scava oltre la superficie.
    Il doppio settenario, con il suo ritmo sostenuto, bilancia bene l'andatura più lenta, da alcuni definita "a filastrocca, che ha di per sé lo schema abab; ma in questo caso tale andatura ritmica, riprendendo (a livello metrico) la giocosità di Pecco, è perfetta. Lo schema delle delle rime, secondo me, è indovinato al 100 per cento, un vero punto di forza.
    Il distico finale, a rima baciata, si distacca dal resto delle immagini lasciando la sensazione di leggere un aforisma.
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    È un racconto scritto con attenzione: lo stile fluido, caratterizzato da un linguaggio aulico, si accompagna a un contenuto di spessore. La morale, espressa con la leggerezza di un racconto per bambini, fa leva sugli elementi della meraviglia e dell'incredulità. C'è una fata che soltanto il protagonista può vedere, come un novello grillo parlante. Non si sa se esiste o meno; l'insegnamento che porta viene messo in discussione dal protagonista che, prima, si dimostra scettico ma che poi accoglie i suggerimenti.
    La morale, "cucinata" per i lettori, viene dispensata al bambino dal nonno sotto forma di racconto orale oppure di favola. Infatti la narrazione si dipana presentandoci alcuni tratti peculiari del genere: la magia, l'aiutante, la prova, la presenza del cattivo e la sua sconfitta finale.

    Nell'elenco di tutte le pietanze, pietanze sopraffine per i propri tempi, il tuo racconto - pur con tutti i distinguo del caso- mi ha riportato alla memoria una certa atmosfera del
    pranzo di Babette di Karen Blixen.
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    Uno strillo spaventoso interrompe bruscamente le mie riflessioni letterarie e pseudo esistenziali del dopo cena inoltrato.
    - Cosa c'è? - chiedo accorrendo in cucina visibilmente spaventata.
    - È finito il pane! In congelatore non ne abbiamo più, - mi annuncia mio padre con sgomento. - Domani i supermercati saranno chiusi a causa delle festività, - mi fa presente.
    Fra tutte le mancanze di cibarie questa è certo la peggiore. Il pane è la base del nutrimento; è ciò che, a tavola, non deve mancare perché rende un pasto tale. Il pranzo e la cena iniziano e finiscono con il pane a disposizione dei commensali.
    - Come faremo?
    - Cuoceremo la pasta o il riso. Sono pur sempre carboidrati, - propongo.
    - Non scherzare.
    "Certo, col pane non si scherza. Esso è depositario di tutta la saggezza degli antenati. Se il suo prezzo è basso è indice di benessere; se il prezzo aumenta si profilano tempi duri all'orizzonte; non va sprecato ma non va centellinato, specialmente con gli ospiti."
    - Non c'è soluzione.
    - Se vuoi lo preparerò io.
    - Cosa? Hai dimenticato che quando hai provato a fare una pagnottella, è venuto fuori un macigno?
    - Allora non avevo seguito il procedimento corretto. Ma non accadrà di nuovo. Stai tranquillo. - Lascia perdere, non mi sembra il caso.
    - Filerà tutto liscio. Domani, per l'ora di pranzo, sarà pronto.
    - Mah... D'accordo, ti lascio libera la cucina. Male che vada cuoceremo gli spaghetti.

    Prima di trasformarmi nella regina della panificazione casalinga, vado a lavarmi le mani. Credo che neanche un chirurgo, sul punto di entrare in sala operatoria, sarebbe più scrupoloso di me nello strofinarsi ogni millimetro di pelle.
    In un bicchiere, riempito d'acqua tiepida, verso una bustina intera di granuli di lievito disidratato. Essendo un impasto a lunga lievitazione, mezza dose (5 grammi) sarebbe più che sufficiente; ma io, distratta dal comprovare la giusta temperatura dell'acqua, non faccio attenzione alle proporzioni e così metto qualcosa in più. D'altra parte, memore del motto latino melius abundare quam deficere, reputo sia meglio arrotondare per eccesso piuttosto che per difetto.
    Gli imprevisti capitano, soprattutto quando siamo dei neofiti; ed io è la prima volta che uso il lievito disidratato. Fino a un minuto prima non avevo idea che i granuli dovessero essere risvegliati e nutriti. Un'altra complicazione.
    "È colpa tua", mi dico. "Chi lascia la strada vecchia per la nuova non sa quello che trova".
    Ho appena scoperto che, per non finire agonizzante, non basta mescolare il lievito in un composto omogeneo con un liquido poco riscaldato. Giacché invece del cubetto fresco (che si ammuffisce puntualmente in frigorifero prima che riesca a consumarlo per intero) ho preferito la forma simil-sabbia, ossia a lunghissima conservazione, è obbligatorio passare, innanzi tutto, per il processo di "fine ibernazione" con ingrasso. Le istruzioni, riportate sul retro della confezione, sono telegrafiche ma chiare: aggiungere al liquido un cucchiaino di zucchero e aspettare dieci minuti. Una cosa da niente, insomma.
    Ma cosa mi assicurerà la rianimazione dei granuli andrà a buon fine?
    Nel dubbio, che mi fa sudare freddo, ricorro alla soluzione collaudata da secoli: meglio più che meno. Metto doppia quantità di zucchero; e poiché non c'è due senza tre - saggezza antica anche questa, no? - aumento a venti minuti il tempo che concedo al liquido marrone, per risvegliarsi, saltare giù dal letto e mettersi al lavoro.
    Aspetto e aspetto...
    Ecco, le lancette dell'orologio sono giunte al traguardo. Entro nel vivo della preparazione.

    Sono le dieci di sera e un chilo di farina tipo 0 si riversa nella ciotola come una nevicata improvvisa fuori stagione, seguita da una pioggia primaverile (650 millilitri d'acqua tiepida). Inizio a impostare con energia usando una forchetta.
    Non aggiungo sale perché in Toscana mangiamo il pane sciapo (o senza sale che dir si voglia); se si vuole è questo il momento buttarne una presa. A me non piace Le mie papille gustative sono assuefatte all'insapidità della tradizione.
    Appena l'amalgama di farina e acqua si indurisce, proseguo a impastare con le mani e olio di gomito. Assesto colpi a ripetizione con i pugni chiusi. Questo movimento è molto rilassante. Scarico ogni traccia di rabbia repressa, anche quella che non sapevo di avere. Dopo mezz'ora di esercizio ginnico, dalla ciotola si stacca una palla elastica, liscia e dal profumo gradevole.
    La copro con un canovaccio sistemandola nel forno acceso con la luce per mantenerla al caldo. Mezz'ora dopo la ritiro fuori e inizio a fare il primo giro di pieghe.
    Questa strana operazione, che va ripetuta almeno tre volte a distanza di un venti minuti l'una dall'altra, serve per creare la caratteristica alveolatura, quella che si vede quando si taglia il pane a fette. Senza tale lavoro, il risultato finale, una volta uscito dal forno, risulterebbe duro e pesante da digerire.
    Con una mano bagnata afferro l'impasto dall'esterno e lo spingo verso il centro, procedendo così per tutto il cerchio; tutto va di nuovo dentro il forno con la luce accesa, a lievitare.
    Secondo giro di pieghe: come sopra.
    Di nuovo al caldo.
    Terzo giro di pieghe: stendo l'impasto con le mani poi lo ripiego come un foglio per essere riposto in una busta. Melius abundare quam deficere:ripeto per quattro volte.
    È mezzanotte e mezza. Sto morendo dal sonno; ormai non mi importa un'acca se qualcosa andrà storto. Voglio soltanto andare a dormire. Con gli occhi semi chiusi, formo una palla liscia e poi la rinchiudo in frigorifero. Mi appare un controsenso eppure è così. Dopo un ambiente caldo ne serve uno freddo. Ciò ridurrà la velocità di lievitazione permettendo alla farina di diventare soffice e digeribile.
    Quanto tempo ci è voluto.... e fosse finita!
    Invece siamo soltanto a metà strada.
    " Se mi trattengo in cucina ancora cinque minuti - penso io raggiunta da una sequenza di sbadigli - getto tutto fuori dalla finestra! "
    Perciò abbandono l'impasto al suo destino, fausto o infausto che sia.

    Dopo dodici ore in frigorifero la mia palla di acqua e farina è talmente cresciuta che esce dalla ciotola. I granuli, durante la notte, non soltanto si sono svegliati a dovere, ma hanno addirittura gozzovigliato.
    Lavoro l'impaso per un po' sulla spianatoia, facendo un ulteriore giro di pieghe; poi ne ricavo due filoni allungati con l'aiuto della farina rimacinata. Pratico su entrambi dei tagli orizzontali; infine li adagio, ben distanziati, sopra una larga teglia che ho rivestito di carta da forno. Accendo il forno, modalità statica, 190 gradi. Aspetto che arrivi a temperatura.
    Il forno è pronto; la teglia è posizionata.
    Dopo dieci minuti i due filoni sono cresciuti a vista d'occhio e dopo altri quindici un profumo meraviglioso ha invaso la cucina.

    La cottura durerebbe complessivamente trenta minuti. Io però ne aggiungo altri cinque. <i>Melius abundare...<i> Beh, tanto per essere coerenti.
    La crosta, ottenuta dalla farina rimacinata, è giallo oro; così come l'olio d'oliva extravergine che verso sulla prima fetta per assaggiarla, rigorosamente a pranzo.
    È il tempo l'elemento principale di questa ricetta. Tempo buttato via o ben impiegato? Dipende dai punti di vista. Il pane è simbolo di vita, in fin dei conti. La mia pazienza però è stata messa a dura prova.
    - È un pane morbido e buono, - si complimenta mio padre dopo averne verificato il sapore. Ne ha appena addentata un'altra mezza fetta.
    - Quale ricetta hai seguito? - mi domanda mia madre mangiando con gusto ciò che ho preso per lei dal tagliere. Lei mi ha lasciato pasticciare in cucina senza sollevare obiezioni, ma non so quanta fiducia riponesse nel risultato.
    - Quella trovata in uno dei miei libri di latino, - rispondo.
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    Anch'io stavo buttando giù qualcosa. Spero di riuscire a finire nei prossimi giorni.
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    C'é molto Pecco in questa poesia che coglie diverse sue sfumature, a mio parere

    "tristezza accanto un animo giocoso"
    È un verso che trovo bellissimo.

    L'allegria di Pecco, però riesce a smorzare i momenti bui più facilmente.

    Stilisticamente si nota un impegno notevole perché le immagini sono ben collegate. La scorrevolezza della poesia è buona, a parte in un paio di punti in cui, a mio sentire, il ritmo si perde un pochino.
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    Grazie, kira. Ho modificato il verso.
762 replies since 13/11/2011
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